Con le missioni Artemis, la NASA punta a far rimettere il piede all’essere umano sulla Luna dopo le missioni Apollo. Ma tutte le agenzie spaziali (e società private) stanno guardando ad andare oltre il nostro satellite naturale e il primo passo potrebbe essere riuscire a posarsi su Marte con una spedizione umana tra qualche decina di anni. Per riuscirci serviranno tecnologie attualmente non ancora sviluppate e molta ambizione.
Una delle problematiche alle quali si può assistere anche nella permanenza a bordo della Stazione Spaziale Internazionale per qualche mese è relativa alle modifiche che avvengono nel corpo dell’essere umano. Ma se per la Luna questo è un problema relativo (ci vuole “solo” qualche giorno per raggiungerla) per arrivare fino a Marte bisognerà che l’astronauta resista qualche anno. Del resto si tratta nel primo caso di arrivare a poco più di 300 mila chilometri, nel secondo invece a oltre 50 milioni di chilometri (se si considera la distanza minima). Per questo l’ESA sta pensando all’ibernazione per cercare di far sopravvivere gli astronauti nel viaggio di andata e ritorno per il Pianeta Rosso.
In un recente studio di tipo Mission Concept and Requirements Assessment (MicRA) dal titolo di “European space agency’s hibernation (torpor) strategy for deep space missions: Linking biology to engineering” si affronta la problematica dell’ibernazione per i viaggi spaziali verso lo Spazio profondo. La strategia messa in campo prevede sia di studiare la parte biologica sia di capire come l’ingegneria potrà aiutare nel compimento di questo prodigio della Scienza. In futuro quello che per ora abbiamo visto solo nei film di fantascienza potrebbe quindi diventare realtà.
Secondo i ricercatori che hanno redatto lo studio per l’ESA (agenzia spaziale europea) si pensa che un astronauta potrebbe avere bisogno di circa 30 kg tra acqua e cibo per due anni per resistere al viaggio per Marte (che comprende andata, permanenza sul pianeta e ritorno). Ma allontanandosi dalla Terra e dal suo campo magnetico bisognerà considerare anche le radiazioni che sarebbero fatali per il corpo umano.
Si sta immaginando la possibilità di ibernare gli astronauti per ridurre il loro metabolismo in un range dal 10% al 20% del normale metabolismo basale di una persona di 75 kg. Questo permetterebbe di diminuire anche il sostentamento. In questa condizione “sospesa” gli astronauti non sentirebbero il peso della noia, della solitudine riducendo l’aggressività. Restare chiusi in uno spazio confinato per anni con le stesse persone potrebbe rappresentare, di fatto, un problema.
I ricercatori si sono ispirati al mondo animale. Gli orsi (Ursus arctos e Ursus americanus) sarebbero il modello più adatto per pensare una strategia di “torpore terapeutico” per gli astronauti. Interessante notare che gli astronauti ipoteticamente sarebbero fatti “ingrassare” prima della partenza permettendogli di avere riserve di grasso corporeo.
Le donne potrebbero essere favorite per via dei diversi livelli di ormoni secerniti. Giocherebbero un ruolo importante gli estrogeni e i livelli più bassi di testosterone che potrebbero migliorare le condizioni dopo il risveglio dal “letargo indotto”. L’ibernazione degli astronauti permetterebbe anche l’attivazione di vie metaboliche (regolazione endocrina del metabolismo del calcio) che potrebbero far mantenere il tono muscolare e la massa ossea. Questo ridurrebbe gli effetti negativi ai quali si assiste anche nelle missioni sulla ISS.
Una delle vie per capire come indurre il torpore in una specie che naturalmente non è predisposta (come l’essere umano) è segnata dalla sperimentazione animale. Nei ratti avviene con l’iniezione di un alcaloide (muscimolo) in una zona del tronco encefalico che porta a una riduzione del battito cardiaco e della temperatura corporea.
A livello ingegneristico quindi si potrebbero pensare delle strutture morbide con ambiente tranquillo, luci soffuse, alta umidità e temperatura di circa -10°C. Lo scopo sarebbe quello di non doverli bloccare con cinture o altro e potrebbero indossare vestiti in grado di non trattenere il calore del corpo. Non mancherebbero poi sensori che monitorerebbero parametri come postura, frequenza cardiaca e temperatura.
Un’idea che era già stata pensata in passato è quello di utilizzare l’acqua come schermatura contro le radiazioni. Questa sarebbe disposta intorno alla camera di ibernazione e potrebbe essere anche impiegata successivamente per altri scopi. Lo stesso torpore terapeutico mostrerebbe capacità di resistenza ai danni da radiazioni. I compiti di gestione della navicella sarebbero affidati invece all’intelligenza artificiale che potrebbe risolvere le anomalie senza intervento umano. Siamo quindi vicini all’ibernazione per gli astronauti? No. Questo studio segna la strada per le future sperimentazioni, analisi e per la fase di progettazione ingegneristica dei supporti vitali. Sembra comunque promettere un futuro molto reale e non fantascientifico.